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Giovanna Musso @ teatroescuola

Camaleontica e fuori dagli schemi della rappresentazione. Giuliana Musso non è solamente un’attrice, ma è una sarta che sceglie con estrema cura i tessuti e li tratta con pieno rispetto, in un lavoro di minuta cucitura. Essenziale e senza ricami.

Pacata ed eccezionalmente riflessiva, mai pedante, in scena soppesa concetti e parole, così come nella vita. A noi ha affidato balsamici istanti di una sincera e intima visione dell’esistenza e della sua preziosa arte.

Giuliana, come stai nella vita e nell’arte?

Oddio, che domanda impegnativa! Come artista nasco grazie al mio grande amore per la recitazione che mi ha portato a frequentare dieci anni di corsi nazionali e internazionali e la scuola di teatro a Milano. Sono sempre riuscita, grazie a un notevole caratteraccio, a fare quello che mi piaceva, rimanendo fedele ad un teatro popolare, al linguaggio della comicità come espressione liberante per l’attore. Ho sempre cercato quelle forme del teatro che davano spazio all’attore come artista che produce drammaturgia e auto-regia. Ho sperimentato i mondi professionali degli interpreti – scritture, teatro contemporaneo, prosa – capendo che non mi piacevano. Mi stavano stretti per la riduzione dell’autonomia artistica della recitazione in sé… noi siamo i figli di una generazione che ha delegato tutto questo patrimonio di conoscenza, e di abilità, alla regia. Ci siamo allontanati dalla tradizione d’attore del teatro italiano e questo strapotere della regia non riuscivo a digerirlo. È anche un mio sentire “Politico”, cioè del che cosa noi attori diciamo al mondo quando siamo sul palcoscenico… molte proposte che mi venivano fatte erano di testi che non avevano grande lucidità del discorso. Quando ho trovato la dimensione della scrittura, come possibilità per l’attore di manifestare pensieri ed emozioni, non l’ho più lasciata. Quindi, dal 2001, oltre a recitare, io scrivo tutto quello che dico. Inizialmente con grande senso di inadeguatezza verso la scrittura perché non l’amavo particolarmente, ma poi con totale dedizione, scrivendo per un corpo che immaginava la parola in azione e in relazione, sul palco.

Dici di avere un “caratteraccio”, a cosa ti riferisci?

Un giorno, un direttore di festival mi ha chiesto se mi sentissi più autrice o attrice e io risposi “un’attrice con un brutto carattere”.

Nelle tue parole entra spesso il concetto di ricerca. Cosa esplori nel percorso artistico?

L’attitudine principale dell’attore è la fame di mondo, di storie, di umanità che assorbe… nel corpo… oltre che con la mente… e che riesce a rilevare e poi restituire. Questo è un atteggiamento che io ho trasferito sul lavoro di drammaturgia. Per ogni cosa che ho fatto sento un’urgenza rispetto a un tema, ma non ne so niente e quindi mi metto nell’attitudine di imparare, comprendere, prima di tutto sul piano teorico perché in ogni campo esiste già un mondo di conoscenza a cui attingere. Ma tutto ciò non può bastare per un’elaborazione artistica se non passa attraverso la raccolta dell’Esperienza umana, quella impressa nel corpo, che genera un sentimento incarnato di ciò che accade. Solo allora, quello che passa attraverso quest’esperienza diventa una narrazione del mondo ed è quello a cui aderisco di più quando sviluppo un percorso creativo. Tutti i miei testi sono frutto di un’esperienza di relazione che io stessa faccio con il mondo e con le persone che mi trasferiscono le loro esperienze.

Io non ho niente da dire, sono uno strumento, come lo è il teatro. Poi è chiaro che l’atto artistico esiste nella forma, nella scelta e nella sintesi. Decido io qual è la bussola e l’opera è la risultante di tutti questi aspetti.

Guardando i tuoi spettacoli è difficile cogliere degli stilemi, delle linee di contatto formale tra le tue rappresentazioni…

Mi sento libera, anche se uno è libero sempre all’interno delle sue coordinate fisiche, di genere, di mezzo. Il corpo è pur sempre il mio e ha delle possibilità non infinite… dando per scontato tutto ciò, la forma è l’ultima che arriva. È l’esito di una ricerca che spesso vede il ribaltamento delle tesi di partenza. Per questo è molto facile che uno spettacolo sia diverso dal precedente. Se al contrario la forma, come spesso succede, diventa il nostro primo pensiero, allora anche la ricerca sarà condizionata ed entrerà in un imbuto. Devi darti la possibilità di iniziare una ricerca con un senso di smarrimento, essere senza cornice. La struttura e la forma estetica dello spettacolo devono essere al servizio del senso del contenuto.

Il teatro civile soffre tantissimo nelle stagioni. Pensi che dopo questo periodo sarà ancor più necessario?

Non lo so. Da un lato avremo bisogno di opere che trasudano teatro, cioè del linguaggio simbolico che porti sul piano della favola, della narrazione. Non credo quindi che a teatro ci sia bisogno della cronaca esplicita del nostro vivente, ma di un passaggio un po’ più coraggioso e convinto nella traduzione dei testi di repertorio classico rispetto al nostro presente. C’è bisogno – e qui mi appello molto ai registi che secondo me, in Italia, oggi sono un anello molto debole della produzione artistica – che la traduzione porti a far capire meglio al pubblico di che cosa stiamo parlando, partendo dal capirlo meglio noi artisti. Dobbiamo dare meno valore all’estetica del gesto, della composizione registica in sé, e lasciare che questa estetica maturi dall’idea portante che è sempre, sempre, sempre un’idea civile, sovversiva e politica. La poesia, quando è poesia, è la ricerca del vero, dell’intero, del vero per l’umano.

Possiamo dire, quindi, che i tuoi spettacoli sono atti poetici. E come la poesia sono sempre venati di malinconia, in cui vita, morte, ironia sono tutte parti inscindibili dell’amalgama. In questo senso, c’è una sofferenza durante il processo creativo?

Ciò che mi fa soffrire è la mia ignoranza, sono i miei limiti che mi fanno soffrire, cavolo! Se ogni volta ti metti nelle mani del mondo, facendo un passo dopo l’altro, capire dove stai andando non è mica facile! E io, a volte, mi sento troppo ignorante, troppo stupida per capire cosa sto facendo… Ora sono mesi che sono in fase di ricerca per un nuovo testo che debutterà dopo l’estate… ho decine di pagine di interviste sbobinate, ma ho dovuto fermare tutto per tornare a studiare testi di teoria – macrostoria, psicologia dell’evoluzione – a monte di tutto, per avere le coordinate in cui muovermi e organizzare tutto questo materiale.

Se avessi studiato di più invece che andare in giro a fare la pagliaccia nel mondo, magari…

magari non avresti la brama di conoscenza o avresti quei confini mentali che adesso non hai, chi lo sa!

Chi lo sa! Grazie per la speranza che mi dai! Ecco, per concludere la tua domanda di prima, non mi fa soffrire il dolore che sta nel mondo perché le lacrime di compassione sono lacrime che ci fanno stare bene, ci salvano. Ciò che ci fa soffrire sono le lacrime che non possono emergere, perché senti che c’è un dolore sotteso nell’umano e non sai perché. Quello ti fa male!

Hai mai lavorato per il teatro dell’infanzia?

No, sono un caso particolare. Non lavoro con i bambini perché ho sempre pensato che per lavorare con l’infanzia ci voglia un’altissima specializzazione professionale che va rispettata. Ho stima profonda per chi lavora nel teatro ragazzi e con l’infanzia e credo sia un lavoro di altissimo valore e non ritengo opportuno mettermi in gioco senza un’adeguata preparazione tecnico-scientifica. Non è che se uno è attore allora può fare tutto! Lo vedo con gli adulti: quando faccio da tutor nei laboratori per professionisti è bellissimo, un’esperienza per la quale ci vuole al contempo coraggio e grande delicatezza perché il teatro, se è teatro, ti mette in una condizione di rivelarti, aprirti. Sei molto vulnerabile, quando fai teatro, e davanti devi avere un genitore accudente e intelligente che ti protegge, deve insegnare proteggendoti… un casino, hai capito?!

Un’altra accusa che faccio al mondo della formazione professionale – dove insegnano per l’80% uomini di mezza età e una buona percentuale di loro non ha risolto il proprio narcisismo rispetto alla recitazione – è che non si mette nel ruolo di genitore accudente, ma di competitor, e questo è terribile, può fare molto male agli studenti e ai giovani professionisti! Dillo, dillo!!!

Il teatro è un contenitore di emozioni condivise. Dopo tutto, ci sarà ancora desiderio di teatro?

Guarda, quando fummo coinvolti dal crash economico del 2008-2009, rimasi colpita dal fatto che mentre nei primi anni calarono le spese delle famiglie per i generi materiali, le spese per lo spettacolo dal vivo si mantennero o crebbero. Ciò significa che in un momento di grande destabilizzazione delle certezze materiali, quelle immateriali diventano veramente un bene rifugio. Allora io sono assolutamente convinta che, in maniera inversamente proporzionale a quanto poco viene considerato il nostro settore in questo momento, alla fine noi saremo essenziali per tutti e la gente verrà in teatro più di prima. Verrà là dove può percepire che la vita non è fatta di solo ciò che è materia quantificabile, ma dove può ritrovare anche l’invisibile, il sentimento che ci tiene vivi. È una questione di percezione del perché sono al mondo e io non sono al mondo solo perché la benzina costa di più o di meno. Sono luoghi che possono restituirci un senso ontologico che a volte la narrazione di un linguaggio più mass mediatico non ci dà. Dopotutto, in sostanza, il teatro è il luogo del rito laico!

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